FOIBE
NATASCIA NEMEC
GUIDA LA COMMISSIONE DI NOVA GORICA PER ACCERTARE LA VERITA'. “MA I SERBI
NON COLLABORANO” “La mia vita per le vittime delle foibe”
Lorenzo Bianchi
NOVA GORICA (SLOVENIA) - Il
camino della morte di Crni Vrh forse custodisce il segreto che molte famiglie
di Gorizia e di Trieste cercano di infrangere da oltre mezzo secolo. Non
è una certezza, ma una probabilità di grado elevato. La più
accreditata “cacciatrice di foibe” slovena, la storica del museo di Nova
Gorica Natascia Nemec, si limita ad osservare con rigore da studiosa che
“nell'ex Venezia Giulia i domobranci, gli sloveni che combattevano con
i tedeschi, erano pochissimi. E si sa che diversi finirono nel camino di
Gargaro”. La nostra deduzione logica è che il pozzo carsico di Monte
Nero abbia inghiottito soprattutto civili rastrellati a partire dal due
maggio 1945, data dell'arrivo delle truppe di Tito a Gorizia.
Natascia si occupa del problema
dal 1993. Da quell'anno guida una commissione insediata dal consiglio comunale
di Nova Gorica per accertare la verità. “Io sono mossa solo da un
interesse di studio e penso che sia giusto far emergere quello che è
accaduto”, mette le mani avanti, “per rispetto degli scomparsi, di tutti
gli scomparsi”. Un'idea ancora contrastata. Fino a qualche tempo fa le
arrivavano minacce telefoniche e consigli di lasciar perdere. Ieri la tempesta
degli insulti e degli avvertimenti via filo si è abbattuta su Anka
Pozenel, la donna che ha voluto un funerale solenne per le vittime.
La storica del museo di Nova
Gorica ebbe le prime informazioni su Monte Nero quattro anni fa. “Venne
da me Jakob Piuk. Il padre combatteva con i domobranci. I partigiani l'avevano
preso assieme ad altre venti persone e fucilato. Da anni cercava inutilmente
di sapere dove fosse il corpo, per portargli un fiore”. Anche altri in
paese sapevano. “Ma non c'era neppure uno straccio di documento su quella
foiba”, ricorda Natascia. Gli atti ufficiali si interrompono di colpo:
“Nell'archivio centrale di stato a Lubiana le carte della polizia politica,
I'Ozna, arrivano solo fino al primo maggio del 1945”. Il giorno dopo, vedi
caso, le truppe jugoslave entrarono a Gorizia. “La distruzione - puntualizza
Natascia - cominciò già nel '46 -'47. E io non credo che
tutto sia finito nel nulla. Ritengo che molti documenti siano in Serbia.
Ma gli storici serbi, miei amici, sul punto sono assolutamente vaghi, non
collaborano”.
Nel grande marasma sono sopravvissuti
gli elenchi dei rinchiusi nel carcere giudiziario di Gorizia dal 12 al
22 maggio, italiani, tedeschi, sloveni alleati dei tedeschi e perfino serbi
monarchici, i cetnici; Una goccia nel mare: “In città furono arrestate
migliaia di persone e finirono nelle caserme, nelle scuole, nelle cantine
e nel Castello”, puntualizza Natascia, “L'Ozna e gli attivisti politici
sloveni e italiani avevano compilato gli elenchi già nel 1944. Nelle
foibe furono buttati tutti i poliziotti di Gorizia”. Con documenti attendibili
la storica di Nova Gorica ha messo a punto un elenco di 901 scomparsi nell'ex
provincia di Gorizia, “metà italiani e metà sloveni”. Nevenka
Troha, una sua collega, ne ha accertati 660 per il territorio di Trieste.
La tragica contabilità
degli svaniti nel nulla purtroppo non torna. A Gorizia il Comitato per
i congiunti scomparsi ha costruito a sue spese un lapidario con 665 nomi.
Molti potrebbero essere finiti nel camino carsico di Crni Vhr. La foiba
era sull'unica strada che collegava Aijduscina, sede di un centro di smistamento
dei prigionieri, con Lubiana. Idrija, un comune dell'interno nel cui antico
castello erano state concentrate centinaia di fermati, era a pochi chilometri.
Lidia Giana, vicepresidente
del comitato congiunti degli scomparsi, rabbrividisce quando le raccontiamo
che secondo i paesani di Crni Vhr il gran via vai notturno di camion carichi
di arrestati cominciò dopo l'8 maggio: “Le ultime notizie che abbiamo
di mio padre Andrea sono del 7 sera. Era il presidente dell'Associazione
commercianti. Nell'unico interrogatorio nel carcere di Gorizia gli avevano
contestato di aver fatto affiggere negli uffici cartelli con la scritta:
si parla solo italiano. Lui aveva spiegato che non era una sua iniziativa
e che glieli avevano mandati da Roma”.
LA NAZIONE Quotidiano del 1 NOVEMBRE 1998
LA DRAMMATICA
TESTIMONIANZA DI MARIJA KUKANIA CHE NEL 1945 AVEVA 10 ANNI “Di notte
sentivo pianti, lamenti e spari”
Lorenzo Bianchi
CRNI VRH (Slovenia) - Marija
Kukania aveva dieci anni nel 1945. Adesso abita con il marito architetto
vicino a Nova Gorica, ma non ha dimenticato. La casa dei suoi è
sul limitare del bosco, a poche decine di metri da quell'avvallamento che
inghiottiva le persone: “Mi svegliava la luce dei fari dei camion. La prima
notte ho sentito 36 spari, la seconda 38. Attutiti appena dalla distanza
ci arrivavano flebili pianti, lamenti e gemiti. Mio padre era a Mathausen.
Quando tornò andammo a vedere che cosa era successo. Trovò
un orologio tutto schiacciato e un frammento di mandibola. Si sedette e
si mise a piangere, a piangere. Nella foiba sono finite di sicuro più
di cinquanta persone. Ho capito la tragedia solo quando ho origliato per
caso un dialogo fra mamma e papà”.
Maria era nella folla degli
oltre cinquecento sloveni che hanno depositato decine di lumini e che hanno
assistito alla solenne benedizione delle vittime il 25 ottobre. Anka Puzenel,
51 anni, la donna che si è battuta per dare una sepoltura degna
agli scomparsi, la ricorda come “quella donna che ha pianto tutte le sue
lacrime”. Quando le è venuta l'idea del funerale signora?
“Tanti anni fa. I miei genitori
mi parlavano sempre dell'accaduto. Se ne discuteva anche a scuola, ma solo
fra amici fidatissimi. Era del tutto impensabile affrontare l'argomento
in pubblico. C'è gente che ancora non ammette l'accaduto”.
Chi per esempio?
“I borzi, i partigiani, hanno
sostenuto che nella foiba non c'è assolutamente nulla. Il presidente
della sezione di Idrija dell'Associazione ex partigiani Franz Petric ha
scritto al consiglio comunale per tentare di bloccare la nostra iniziativa.
Ha sostenuto che avremmo dovuto chiedere la licenza municipale per costruire
un monumento e che comunque prima di erigere una stele si sarebbe dovuta
accertare l'identità degli scomparsi”.
Che cosa l'ha spinta a questa
battaglia?
“L'umana pietà, non
ho parenti scomparsi. Sono consigliere di frazione a Monte Nero, ma la
politica non c'entra nulla. Sono solo una cattolica convinta. Il sindaco
Samo Beuk mi ha appoggiato. Abbiamo cominciato a lavorare due anni fa.
Ho trovato un mucchio di volontari. I falegnami che hanno costruito la
staccionata e la croce, i muratori che hanno piantato i supporti di ferro
nella roccia, l'architetto che ha disegnato il tutto... pagherò
di tasca mia solo i materiali. Abbiamo scelto il 25 perché era l'ultima
domenica prima della festa dei morti”.
E' stata lei a chiamare il
vice primo ministro?
“Assolutamente no. E' venuto
di sua iniziativa assieme al ministro della giustizia il giorno dei defunti.
Ma il momento più felice della mia vita è stato una settimana
prima, quando l'ausiliario Renato Podbersic e il parroco Albert Strancar
hanno benedetto la foiba. E' venuta giù un acqua fitta, uno scroscio,
come se il cielo volesse partecipare al pianto... Ho mandato 180 inviti.
La mia amica architetto Petric Moravec ci ha fatto stampare sopra questo
appello: “Partecipate a un viaggio. Per tutti gli scomparsi il viaggio
è durato 53 anni”. Adesso finalmente è finito”.
LA NAZIONE Quotidiano del 1 NOVEMBRE 1998
RIEMERGE LA VERITA’
SULLA STRAGE IN SLOVENIA ‘DIMENTICATA’ PER 53 ANNI Nella foiba più
di 500 vittime “Molti triestini fra i morti. A massacro concluso gettarono
sabbia e pesce per coprire l’odore”
Lorenzo Bianchi
CRNI VRH (SLOVENIA) La prima
neve ha steso un sudario di silenzio. In fondo al pozzo carsico di Monte
Nero un'orrida casualità ha ammonticchiato terribili resti, tibie
ingiallite, teschi seminascosti dal terriccio. Attorno alla foiba i fiocchi
bagnati infradiciano le tracce della prima pietà umana dopo 53 anni
di paura, di omertà, di vergogna, tre grandi mazzi di fiori, una
corona di alloro deposta nel giorno dei defunti dal vicepresidente dei
governo sloveno Marian Podovnik. Finalmente è consentito piangere
e ricordare.
Anka Pozenel, la fervente
cattolica di Crni Vrh che ha voluto a tutti i costi una messa funebre e
una benedizione per i morti rimossi e cancellati, ha lasciato gigli rosa
e crisantemi. Nessuno sa quanti siano li dentro.
Neppure Damian Lampe, l’albergatore
che ha accettato di mostrarmi il buco dell'orrore fra i faggi e gli abeti
di Idriski Log, una frazione di Crni Vrh. Sul fondo di un avallamento c'è
una staccionta di faggio color marrone rossiccio. Scivolando nella neve
fangosa siamo arrivati fin sull'orlo della foiba. Sul camino profondo sessantacinque
metri ora è sospesa una grande croce di legno. E'appoggiata su un
recinto di dieci lati che circonda la cavità. L'architetto di Idrija,
Heda Petric Moravec, l'ha disegnata così per ricordare la corona
di spine di Cristo. L'idea della croce invece è stata di una compagna
di scuola di Anka che le ha riferito una voce insistente.
Damian fissa la neve, imbarazzato
e pensoso: “Potrebbro esserci dentro più di cinquecento persone,
ma nessuno lo sa perché il servizio segreto militare, il Vos, ha
fatto sparire i documenti con precisione metodica. E' assolutamente certo
che ci fossero anche italiani. La signora Mikus, che aveva una trattoria
vicino al bosco, ha raccontato ai suoi parenti che si sentivano invocazioni
nella vostra lingua”.
Damian Lampe è nato
a Crni Vrh nel 1941. Nella sua memoria è scolpito un giorno, il
primo settembre 1944: “Alle sei arrivarono i partigiani titini del IX Korpus
e spararono il primo colpo dritto sul campanile della chiesa. Lì
si erano appostati i partigiani bianchi, i domobranci, con un mitra. Alle
10 i rossi tagliarono i fili spinati e misero a fuoco tutto il villaggio.
Non si salvò nulla”.
Crni Vrh fu “bonificata” e
qualche paesano, forse un autista, indicò al Vos la foiba. I camions
carichi di prigionieri cominciarono ad arrivare solo dopo l'occupazione
di Trieste, caduta in mani jugoslave l'8 maggio del 1945. Damian riferisce
i racconti che per anni hanno riempito le case del paese, storie sussurrate
solo fra le mura domestiche perché erano coperte da un ferreo “tabù”
pubblico: “La gente arrestata a Trieste e in altri luoghi veniva concentrata
a Vipacco, a Postumia e a Logatec. Il cervello delle operazioni era il
servizio di sicurezza militare. I prigionieri li portavano legati l'uno
all'altro con il filo di ferro, gli sparavano e li buttavano nel pozzo.
Erano partigiani contrari ai titini, ma anche italiani. Pensi che mia madre
Vittoria ebbe paura che ci fosse finito anche mio papà. L'avevano
arrestato a Trieste e portato a Vipacco su indicazione del commissario
politico del paese”. Toni Lampe non era un oppositore politico. Aveva avuto
solo la disavventura di litigare furiosamente con l'uomo del partito.
La foiba di Idriski Log diventò
un segreto impenetrabile. “Dalla foiba usciva un odore insopportabile.
Ci buttarono dentro pesce per confondere le idee, mine e un alto strato
di ghiaia”, spiega Damian. E soprattutto la gente del posto si cucì
la bocca. Meglio non rischiare. La consegna si è sgretolata nel
1992 quando è franata la Jugoslavia. La Slovenia ha conquistato
l'indipendenza. E Anka Puzenel, una commercialista fegatosa, si è
liberata del macigno che la opprimeva. Dopo anni ha potuto chiedere un
funerale e un prete per quei poveri morti. L'ha celebrato il 25 ottobre
il vescovo vicario di Capodistria Renato Podbersic. I bimbetti della scuola
elementare hanno piantato due piccole croci di legno sotto gli abeti e
i faggi.
LA NAZIONE Quotidiano del 1 NOVEMBRE 1998
LA TESTIMONIANZA
DI UMBERTO BERTUCCIOLI, ALL'EPOCA GUARDAFRONTIERA IN ZONA “Altri
massacri lungo la ferrovia per Fiume”
Davide Eusebi
“Scavate, lì ci sono
le foibe” Bertuccioli, 78 anni appena compiuti, ex guardafrontiera del
Gaf il corpo creato da Mussolini per sorvegliare i confini nazionali, ha
un incubo ricorrente, tornato a galla dopo la notizia del ritrovamento
di fosse comuni a Monte Nero “La ferrovia che porta a Fiume potrebbe nascondere
decine di altre foibe, in cui sono finiti migliaia di civili italiani innocenti,
massacrati dai comunisti dopo l'8 settembre”
Ad avvalorare la tesi che
potrebbe far lievitare il già tragico bilancio di morti innocenti
durante l’ultima guerra, sono alcuni particolari che Bertuccioli ricorda
e denuncia: “A Villa del Nevoso in provincia di Fiume, dove stavo svolgendo
servizio militare, dopo l'8 settembre i partigiani rastrellarono tutte
le donne e gli uomini italiani della zona. Li portarono in una fabbrichetta
e, dopo avere invitato me ed altri militari a riconoscere nel gruppo qualche
presunto criminale, cosa che non facemmo, annunciarono loro che il giorno
dopo sarebbero stati fucilati. Ma né io né i miei compagni
soldati sentimmo sparare un colpo e da allora abbiamo vissuto col sospetto,
ma è qualcosa di più, che quella gente fosse stata lanciata
nel vuoto da viva nelle foibe circostanti, forse per non dare alla gente
del posto il sospetto della fucilazione di massa, e lì trovò
la morte. Difficile, molto difficile pensare che tutti siano stati trasportati
nella grande fossa in fondo al pozzo carsico del Monte Nero, una località
troppo lontana da Villa del Nevoso”.
Bertuccioli, di guardia col
suo cannoncino lungo la ferrovia, saprebbe dove andare a scavare: “Abbiamo
vissuto quei momenti in presa diretta. Tutti hanno sempre saputo che ogni
paesino che era attraversato dalla ferrovia che portava da Postumia a Fiume,
era stato saccheggiato e rastrellato. Ogni paese, ogni zona carsica limitrofa
a questi centri abitati potrebbe nascondere una buca di cadaveri. Così
come il fiume sotterraneo Timavo, che si infila sotto il monte di Villa
del Nevoso, potrebbe essere stato il cimitero per molti. Tutti hanno sempre
saputo, ma nessuno ha mai ficcato il naso in queste zone e adesso è
arrivato il momento di farlo”.
Immagini che sono scolpite
nella mente dell'ex soldato: “Io stesso ho visto molte foibe, con i miei
occhi. Ho letto la disperazione nei civili italiani condannati senza motivo:
ferrovieri, impiegati, perfino la maestra dell'asilo, tutti ammucchiati
come bestie e portati a morire negli strapiombi carsici. Ricordo il viso
di una ragazza bellissima, un'impiegata della previdenza sociale, compagna
di un mio amico soldato. Ci guardava mentre i partigiani ci invitavano
a riconoscere quei poveretti, cosa che non facemmo. Non la rivedemmo più.
Ci salvammo cantando bandiera rossa e poi scappammo, purtroppo, verso i
campi di concentramento tedeschi”.
LA NAZIONE Quotidiano del 1 NOVEMBRE 1998